Mahavatar Babaji Nagaraj


La nebbia della leggenda avvolge colui che è riuscito a trascendere la morte negando il proprio corpo planetario all’impietoso scorrere del tempo. Babaji, lo yogin immortale, si muove da secoli dietro le quinte per favorire l’evoluzione umana, assistendo e preparando con la sua discreta presenza ed i suoi inestimabili insegnamenti i ricercatori ed i maestri spirituali in grado di percepirlo affinché possano aiutare ad affievolire e rendere sopportabili gli enormi dolori a cui sono costretti gli uomini di questa era.

Parangipettai, piccolo villaggio nel sud dell’India, vide i suoi natali nell’anno 203 d.C. Figlio del sacerdote del tempio del villaggio, fu chiamato Nagaraj, il Signore dei serpenti, in onore a Śiva, principale divinità della zona. I rituali e le pratiche scandirono i tempi delle giornate della sua infanzia, così come i pellegrinaggi al vicino tempio di Chidambaram ad ammirare la murti di Nataraja, il Danzatore Cosmico. Un drammatico evento pose fine alla sua dolce vita famigliare quando, alla tenera età di cinque anni, un mercante forestiero senza scrupoli giunto in paese in occasione di una ricorrenza religiosa notando la bellezza di lineamenti del piccolo Nagaraj lo rapì approfittando della confusione creata dalla folla di pellegrini. Giunto dopo un viaggio di migliaia di chilometri a Calcutta fu venduto ad un ricco signore della città. La sua schiavitù durò poco, poiché la bontà e la gentilezza del suo padrone lo fecero nuovamente tornare libero nel volgere di breve tempo. Attratto dai sannyasin che transitavano per le strade di Calcutta, si unì ad un gruppo di questi iniziando un periodo di viaggi e di studi divenendo un rispettato erudito. Nonostante la giovane età veniva spesso invitato a chiarire e risolvere dispute filosofiche e metafisiche guadagnandosi il rispetto di molti saggi suoi contemporanei. Dopo un periodo di vita passato tra scritture e dotte contese si accorse che parlare e discutere della Verità è esattamente come raccontarsi un viaggio; non si va né si arriva da nessuna parte. Colse l’occasione di un pellegrinaggio verso sud aggregandosi ad un gruppo di dotti asceti provenienti da Banares, la città sacra, diretti al Tempio di Katirgama sulle orme di Gautama il Budhha. Durante il viaggio verso l’isola di Ceylon il giovane Nagaraj si convinse della necessità di un qualche tipo di pratica per poter assimilare il proprio corpo pesante alle sfere più sottili. Arrivato al tempio ebbe la fortuna di conoscere e divenire discepolo di Boganthar, mitico Siddha e diretto fondatore del Tempio. Boganthar iniziò Nagaraj attraverso dei Dhyana Kriya ed altre tecniche yogiche che con grande zelo e fiducia il nuovo discepolo effettuò assiduamente sotto un grande albero di bayano, divenuto col tempo luogo di culto. L’albero di Babaji è stato ammirabile e venerabile fino ad una cinquantina di anni fa, quando la brutalità di un uomo lo fece abbattere: costui morì suicida solo alcuni giorni dopo la nefasta azione.
La pratica condotta con ardente tapas proseguì per sei mesi e Boganthar svelò al suo allievo kriya più profondi ed efficaci a tal punto da portarlo alle prime esperienze di shamadi. Il suo stato enstatico divenne sempre più stabile culminando con la visione di Sri Kumaraswamy, celeste progenie di Śiva e Parvati. La concezione del divino gli permise di trascendere definitivamente il suo stato egoico. Prima di separarsi dal suo discepolo Boganthar gli mostrò la via del Siddhanta Yoga, lo esortò a farsi iniziare al Kriya Kundalini Pranayama e ricercare tecniche efficaci di Kaya Kalpa al fine di permettere al proprio corpo di rallentare il naturale processo degenerativo. L’evoluzione e la trasformazione del proprio essere è una corsa contro il tempo concessoci, il poter espandere il periodo di esistenza può permette alle varie pratiche intraprese di completare le mutazioni divine che hanno innescato. Il Maestro pronunciò il nome di Agastyar, mitologico Siddha discepolo diretto di Śiva e guru dello stesso Boganthar, e l’allievo ubbidiente iniziò l’ardua ricerca del suo prossimo guruji. Vagò per l’India meridionale finché giunto presso uno dei templi consacrati alla Divina Madre si accomodò in padmasana iniziando a pronunciare il santo nome di Agastyar con l’intendo di non muoversi più fintanto che lo Yogin non si fosse presentato e lo avesse preso con sé. Babaji restò in quel luogo quarantotto giorni durante i quali il suo corpo su vittima di insetti, calura, pioggia e vento, a recitate con fervore il nome del suo Guru come un mantra, nutrendosi raramente con quello che i passanti impietositi lasciavano ai suoi piedi. Quando ormai, superato il limite del crollo fisico, attendeva la consolazione che solo la morte sa portare, apparve il grande Siddha al limitare della foresta. Agastyar abbracciò con gli occhi colmi di lacrime chi aveva accettato docilmente la morte pur di incontrarlo, gli portò cibo ed acqua, lo lavò e gli ridiede energie e vigore prima di condurlo con sé. Nel periodo passato in compagnia del Guru, Babaji fu inziato ai misteri del Kriya Kundalini Pranayama, potentissima tecnica di respirazione, somma dei più alti insegnamenti yogici donati all’uomo dai Siddha. Completato il periodo di addestramento, Agastyar ordinò a Babaji di recarsi a nord, nella regione dell’Himalaya, e scegliere il villaggio di Badrinath come propria residenza. Il piccolo borgo si trova a circa tremila metri di altitudine, vicino al confine col Tibet, alla confluenza di due fiumi. Isolato dal resto del mondo per molti mesi all’anno a causa delle abbondanti nevicate, questo luogo è sempre stato metà per eremitaggi ascetici da parte di coraggiosi yogin, rishi e santi già secoli e secoli prima dell’arrivo di Babaji. Si narra che questa terra sia stata benedetta da Sri Badrinarayan, emanazione di Visnù stesso. Una leggenda vuole che mentre un potente signore del luogo stesse andando alla ricerca di un posto per potersi sedere in ricerca della propria introspezione, un anziano sadhu gli rivolse parola, profetizzando che avrebbe raggiunto lo stato di meditazione solo dopo aver recuperato dal letto del fiume la statua di Visnù andata persa, dimenticata e sommersa da molti anni. Come disse l’eremita la murti della divinità, raffigurante un giovane seduto nel loto, venne ritrovata e ricollocata al suo posto mentre attorno ad essa si intraprese la costruzione di un tempio.
Babaji passò diciotto mesi praticando gli insegnamenti ricevuti, fino a raggiungere il Soruba Samadhi, in cui il Divino si incarnò nei suoi corpi. Il fisico divenne immune alla malattia e la sua pelle iniziò a risplendere di una sacra luce dorata. Pervaso da questo nuovo stato di suprema coscienza si impietosì della condizione di sofferenza in cui giace l’umanità intera e decise di preservare il suo corpo fisico continuando a praticare le tecniche di Kaya Kalpa in suo possesso per ringiovanire a tempo debito il suo organismo così da poter contribuire al risveglio della consapevolezza divina nel maggior numero possibile di persone.
Da allora, a più riprese, si hanno notizie di sue fugaci comparse, a volte sotto le spoglie di giovinetto, altre di un maturo saggio, atte all’iniziazione di grandi uomini capaci di incarnare e diffondere i suoi insegnamenti. Lo troviamo guru di Adi Shankaracharya, grande riformatore induista che bandì i sacrifici di animali dai templi, alla fine dell’ottavo secolo dopo Cristo. Maestro del grande santo poeta Kabir che nel corso del quindicesimo secolo andò oltre alla ristretta visione religiosa del tempo aprendo le porte del suo ashram a uomini e donne di ogni culto e casta. Nella seconda metà del milleottocento Babaji intraprese una nuova strada per poter rendere i suoi insegnamenti fruibili alla maggior parte delle persone.  Diede il Kriya Yoga a Lahiri Mahasaya invitandolo ad iniziare all’insegnamento chi ne avesse fatto richiesta. Espresse la volontà che Lahiri insegnasse e divulgasse il sapere senza condurre una vita ascetica come i suoi predecessori, ma di essere esempio di come fosse possibile stare in contatto diretto col proprio essere divino pur mantenendo una vita mondana e famigliare “normale”. Le tecniche trasmesse erano così potenti da poter indurre cambiamenti profondi e permanenti anche in coloro che non erano disposti ad abbandonare casa, lavoro, amici, moglie e figli aprendo di fatto la via del progresso spirituale a milioni di persone. All’inizio del secolo scorso istruì Sri Yukteswar, diretto discepolo di Lahiri, perché preparasse ed inviasse un suo futuro allievo a rivelare gli insegnamenti sottili in occidente. Il prescelto fu Mukunda Lal Ghosh, meglio conosciuto come Paramhansa Yogananda, che riuscì a compiere la sua missione pienamente realizzando il volere dei suoi Maestri: il Kriya Yoga era sbarcato dall’altra parte del mondo. Prima  che l’abbandono del corpo fisico da parte di Yogananda avvenisse, Babaji iniziò ad ispirare direttamente una nuova fase di diffusione degli insegnamenti mistici tramite le anime di Yogi Ramaiah e Yogi Neelakantan. Entrambi gravemente malati, il primo di tubercolosi ossea, il secondo minato nel fisico da una grave forma di diabete, furono assistiti e curati dal grande Guruji così da permetter loro di trovar le forze necessarie ad affrontare anni di duro lavoro per creare e promuovere ciò che Babaji aveva loro chiesto di fare: pochi mesi dopo il mahasamadhi di Yogananda veniva fondata la “Kriya Babaji Sangah”, associazione votata a portare al più vasto numero di persone possibile l’insegnamento del Kriya Yoga. Tuttora si narra che il Grande Maestro viva nelle vicinanze di Badrinath, in una sorta di magico ashram ricavato in alcune caverne con qualcuno tra i suoi discepoli più cari ed avanzati, protetto da una bolla d’oblio che nasconde alla percezione il luogo. Nel millenovecentosettanta apparve in una grotta ai piedi del monte Kailash dove rimase qualche dì in compagnia di un devoto di nome Chandramani che aveva avuto in sogno il messaggio di recarsi proprio in quell’antro dal padre morto. Dopo di che salì sulle sommità della montagna sacra per restarvi quarantacinque giorni seduto in meditazione.
“Figliolo, devi meditare di più. Il tuo sguardo non è ancora privo di difetti: non sei riuscito a vedermi nascosto dietro la luce del sole”. Con queste parole Babaji scomparve nell’invisibile fulgore. Sri Yukteswar così descrive a Yogananda il saluto con cui Babaji prese commiato dopo un fugace incontro quando era ancora un giovane discepolo. Sri Yukteswar era passato davanti al Mahavatar senza accorgersi minimamente della sua presenza: la sostanza del suo essere è talmente sottile che per poterla percepire senza l’accondiscendenza del Maestro bisogna essere adeguati. Molti uomini e donne sono stati testimoni diretti del fatto che la mente umana se addestrata in maniera ottimale acquisisce la facoltà di potersi mettere in contatto psichico con altre anime proprio come una stazione ricetrasmittente. Per questo motivo Lahiri Mahasaia diceva che Babaji è sempre in ascolto e tutti quanti posso mettersi in comunicazione con lui, nel momento in cui riescano a manifestare la propria coscienza su piani più sottili,  pronunciando il suo nome con il rispetto, l’umiltà e la devozione dovuti ad una Grande Anima. “Om Kriya Babaji Namah Aum” Diego Azzaroni

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